Una romantica veduta dei vigneti di Alessandro adiacenti il Castello di Serravalle
Il giovane Alessandro
Nei chiassosi intervalli delle scuole elementari, tra eloquenti risate, brevi corse tra i banchi riprese della maestra Mara, odore di panini al prosciutto, Gino con la sua dama, sempre pronto a sfidare chiunque e vincerlo senza colpo subire, si facevano anche progetti futuri, si idealizzava su chi o cosa potessimo diventare un giorno, da grandi.
Ci sarebbero stati cow-boy, calciatori, dottori, maestre, poi c’erano astronauti, piloti, cantanti, detective e fate.
Cosa pulsava tra i cuori di questi bambini con tutta la vita davanti oltre alla cotta per il compagno o la compagna di classe? Cosa riempiva di sogni il minuto prima di addormentarsi ogni sera nel sicuro e avvolgente letto di casa? Tra i bambini, con le toppe nei pantaloni, della mia generazione, si immaginava di fare assist a Bettega o Pruzzo, di arrestare delinquenti Sulle strade della California o di viaggiare a bordo del Millennium Falcon e abbattere i caccia TIE. Era una generazione di transizione, nata sul finire degli anni Sessanta, allevata negli anni Settanta, catapultati negli anni Ottanta e che avrebbe toccato terra negli anni Novanta. Astronauta o fata nessuno di noi lo diventò mai.
Certo che alcuni sogni non hanno mai però del tutto abbandonato cuori e teste di alcuni di noi, i sogni più concreti hanno trovato una materializzazione e maestre ne abbiamo, infermieri anche. Io, Stefano e Paolo, per ora, non abbiamo mai viaggiato tra pianeti e visitato mondi nuovi.
In quegli anni, tra crisi energetiche di domeniche a targhe alterne, nelle ore calde di lunghe estati a mangiare ghiaccioli l’idea fissa di poter fare cose da grandi e grandi cose era ricorrente.
Per alcuni vi erano dei veri chiodi fissi come ad esempio poter guidare una Vespa 50 Special o poter entrare senza essere accompagnati dai genitori in una sala giochi.
Cos’è un chiodo fisso nella testa se non un’idea, un pensiero che si ripete, una fissazione appunto, come quella che probabilmente grandi personaggi della storia hanno avuto? Espressione idiomatica che non per forza deve essere equiparata ad un’ossessione che, come il tarlo, assumerebbe una palese connotazione negativa ma, con più leggerezza, concepiamola come un’idea ricorrente che si rinnova giorno dopo giorno. L’espressione “chiodo fisso nella testa” ha un limpido riferimento al chiodo conficcato nel legno o nel muro che, anche tolto, lascia sempre il segno.
Con l’avanzare dell’età, ad esempio, alcuni di noi non potranno più fare il calciatore professionista ma rimanere nel mondo del calcio e diventare mister perché no? Se Cristoforo Colombo se non avesse avuto il chiodo fisso di dimostrare che le Indie si potessero raggiungere navigando verso ponente, non sarebbe mai partito.
Ha però un termine questo chiodo fisso e potrebbe corrispondere al raggiungimento dell’obiettivo preposto o alla manifesta impossibilità di farlo.
Sicuramente il chiodo fisso ha una sua collocazione anche in ambito sentimentale, in amore potrebbe essere il motivo conduttore di lunghi periodi non sempre o solo felici ma magari malinconici, spesso lo si identifica con la mancanza di conseguimento dello scopo, la persona amata non ci corrisponde o non la si può vivere come vorremmo.
Sicuramente ammirabile ed encomiabile chi fin dalla tenera età ha avuto come chiodo fisso una concreta idea magari da vivere e condividere in quotidianità, realizzando nel modo più verosimile possibile il proprio sogno.
Nelle mie escursioni tra le felsinee colline ho incontrato persone di ogni età, in diversi ambiti, che sono riuscite a realizzare i propri sogni raggiungendo la loro personalissima meta.
In una buona percentuale, questi individui, sono vignaioli e di questi il maggior numero sono perlopiù giovani. Nella percentuale rimanente sono raccolti non più fiorenti ma direi maturi vigneron che hanno idee ben chiare e con la stessa passione dei più giovani portano avanti l’ennesima vendemmia e le ennesime scelte, forzate o meno. Ma tra i più giovani quale misteriosa forza ha spinto questi ragazzi con ogni prospettiva di fronte loro a scegliere un’attività come il produttore di vino, con le intrinseche ricorrenti incertezze e le eterne decisioni da prendere? Dal campo alla cantina e non solo?
Ora, vi prego, non me ne vogliano produttori di patate o radicchi ma non credo che fare il vignaiolo possa essere messo sullo stesso loro piano, non voglio credere che il produttore di patate metta la stessa empirica e spirituale passione che mette un allevatore di vite in ogni lavorazione, decisione o scelta. Vorrei, il condizionale è d’obbligo, vorrei credere che l’onestissimo, orgoglioso, insostituibile e necessario produttore di patate abbia scelto quel mestiere per necessità, eredità o convenienza economica ma non per passione viscerale, incontrollata ed onirica come la possono esprimere i produttori di vino. Viva il Solanum tuberosum!
Chi ha seguito le orme dei nonni, chi ha avuto illuminazioni rivelatrici, chi ha deciso coraggiosamente di buttarsi a capofitto in una ignota avventura e chi dopo un po’ di anni spesi in quel mondo ha scelto di viverlo nella sua integrità, ogni produttore di vino se non ha la passione che lo sostiene più di ogni altra cosa non sarà mai un bravo vignaiolo. Personalmente, l’ho già anche ribadito, non ho ancora conosciuto produttori che lo facciano solo per un misero ritorno economico o perché non sanno che altro fare.
Tornando ora sul tema iniziale con una considerazione nata da queste ultime righe, se uniamo in un meraviglioso blend il celeberrimo chiodo fisso e una discreta dose di curiosità otterremo secondo voi un prodotto fine, completo, equilibrato? Esplosivo? Se i giovani vigneron di un tempo, ora maturi produttori e i giovani scalcitanti puledri non fossero essi stessi questa singolare sintesi tra sogno e interesse sarebbero posti sullo stesso piano di malinconici agricoltori? Di lavoratori della terra?
Probabilmente è proprio la curiosità che in alcuni vignaioli ha acceso la miccia della passione e dell’interesse per questo strabiliante mondo, il domandarsi come, cosa, perché, il cercare perennemente dei riscontri, l’essere come Odisseo tra filari, come fossero le onde che solcava l’eroe quando oltre le Colonne d’Ercole pensava di trovare le risposte. Purtroppo Odisseo non trovò altro che il naufragio ma per molti nostri vignaioli le cose sono andate fortunatamente in modo assai diverso, la curiosità e il chiodo fisso li hanno premiati, regalando loro diverse soddisfazioni.
Sui colli bolognesi ho conosciuto un giovane imprenditore del vino che con una certa attendibilità rispecchia e, come pochi altri impersona, quel misto di chimera e curiosità dandone concretezza.
La sua attenzione, da bambino, viene rapita dal vicino di casa che fa vino domestico e giocando lo aiuta, lo assiste, apprende. Senza immaginare quanto possano essere fondamentali quei giochi tra tini, tubi e bottiglie entrano in lui quei fondamenti e quelle gestualità che faranno da rampa di lancio al suo futuro.
A 13 anni Alessandro Fedrizzi acquista un tino da 100 litri, i vicini di casa gli regalano 2 cassette di uva e prova a fare il suo primo vino, un orrore. Ma gli anni passati a giocare tra uve, mosti e damigiane, senza ancora nozioni tecniche, sviluppano in lui una discreta capacità sensoriale, colori, aromi, sensazioni, sono libri aperti dai quali estrapolare informazioni per migliorare la prima esperienza di vinificazione tutt’altro che soddisfacente. Chi ha un sogno e lo insegue ritenta. L’anno dopo prova ancora e acquista un frigo dove mantenere il pied de cuve, le cose migliorano, progrediscono, si perfezionano.
Qualche anno dopo, tramite il padre prende in affitto un terreno di un ettaro e mezzo e vinifica nella cantina sociale di Bazzano, Valsamoggia.
Come già citato in altri testi, non tutti i giovani vignaioli sono figli d’arte o sempre appoggiati dalla famiglia, Alessandro, in questo senso, non ha vita facile con i suoi genitori, i quali faranno investimenti anche importanti per accontentare un sognatore a far divenire il frutto un vino in una bottiglia. Esaurita l’esperienza nella cantina di Bazzano il giovanissimo Fedrizzi, per la gioia dei suoi, decide di vinificare in proprio, bisogna darsi una struttura, il garage di casa non basta più. Nel frattempo vende parte delle sue uve nere a un privato e al ritorno da scuola corre a vendemmiare presso una nota cantina dei Colli Bolognesi, affinando tecniche e osservando bene i procedimenti, i tempi, i modi e i gesti per poter realizzare un buon prodotto, il suo prodotto.
Passano gli anni e le stagioni si susseguono, Alessandro trova una sistemazione dove poter realizzare la sua personalissima cantina, avere uno spazio adatto per poter anche sistemare tutta la nuova attrezzatura, espande gli ettari acquistati, come se sapesse già che gli investimenti che andrà a fare saranno ripagati.
Tra le bacche bianche oggi troviamo Grechetto Gentile, Chardonnay, Incrocio Manzoni, Sauvignon alsaziano, Riesling renano, Uva Angela e Montuni per la DOC Reno, tra le rosse Cabernet Sauvignon, Franc, Barbera, Syrah, Pinot Nero, Merlot e Malbo Gentile, queste sono le uve aziendali che comporranno i suoi vini.
Alessandro denota una spiccata visione imprenditoriale, nella sua cantina infatti non vinifica solo le sue uve e imbottiglia i suoi vini ma vinificano e imbottigliano anche altri produttori della zona. Nell’etichetta delle sue bottiglie, Fedrizzi, inserisce lo stemma di famiglia, un’antica nobile stirpe di banchieri della, ancora austroungàrica, Val di Non. Tra i suoi avi figura un celeberrimo entomologo che insegnava nella seconda metà dell’Ottocento all’Università di Bologna. Insomma, il blasone non manca.
Tornando sui Colli, Alessandro mi riceve in una sera estiva dove tra i frondosi e dolci pendii la temperatura risulta più gradevole, mi sistema un tavolo ben apparecchiato, insieme ci sediamo per assaggiare i vini, discutere della sua storia e del futuro, di sovescio e uve resistenti.
Il gagliardo Alessandro ci tiene a dirmi che i suoi filari non subiscono l’azione di antiparassitari chimici e diserbanti, oltre alla tecnica del sovescio, utilizza letame pellettato e poco rame per non abbassare troppo gli aromi presenti nell’uva ed è in arrivo la certificazione di azienda biologica totale.
Pensieri, parole, progetti, Alessandro Fedrizzi non si fa intimidire dall’effimera attrattiva di uve internazionali, conosciute, decantate, esaltate e reinventate per fare vini costruiti più o meno con brillanti ricette esotiche o presuntuose idee originali.
Certo che l’eredità dei giovani vignaioli dei Colli Bolognesi è ancora condizionata da scelte fatte diversi decenni fa e non è sempre semplice decidere di abbattere, annullare, un vigneto di uve internazionali per installarne uno nuovo, magari autoctono quando purtroppo il vecchio sta lavorando bene e fa vendere bottiglie, pagare tasse e bollette.
Il giovane Fedrizzi è convinto che sarà il territorio e la mano dell’uomo che lo vive che definiranno il futuro dei vini e non la omogeneizzazione dello stesso, dando un carattere e una personalità alle produzioni, rendendole sempre più peculiari di zone, climi e regioni più o meno grandi.
Dalle nostre chiacchere emerge che potrebbero essere proprio i vigneti autoctoni a dare più lustro ai Colli Bolognesi e questa cosa, per fortuna, l’ho già sentita dire sia da giovani che da più attempati vigneron.
Nel 2019 si piazza primo tra i migliori giovani vignaioli italiani e nella guida Slow Food 2020 risulta uno dei 50 migliori giovani vignaioli del mondo.
Essere davanti a una giovane promessa, confermo, è emozionante, allettante, divertente e soprattutto interessante ma la cosa disarmante è la profonda umiltà del ragazzo, quando parla dei suoi primissimi anni da vignaiolo, i suoi esperimenti, i conseguenti successi e fallimenti, l’organizzazione dell’azienda, gli amici e i colleghi che vengono a vinificare nella sua cantina.
Non si perde troppo tempo e il calice che ho davanti mi si colora di un bellissimo giallo paglierino chiaro, all’interno il metodo classico extra brut 2018 realizzato con Chardonnay e un cultivar da uve resistenti, uno scorcio di futuro. Bolle molto fini e un meraviglioso perlage allieta gli occhi ancor prima di arrivare al naso, il bouquet conquista e chiede a gran voce il sorso. Le bollicine non risultano ruvide ma accarezzano lingua e palato, la morbidezza inaspettata contrasta la spiccata freschezza, un bell’equilibrio e una finezza che, si sente, è stata ricercata. E trovata.
Il Pignoletto frizzante 2019 insegue le migliori aspettative, si pone perfettamente tra i binari di un tracciato, come un treno, e va diritto per la sua strada, giallo paglierino carico, 12 mesi sui lieviti, degorgement a la volée, blend di Pignoletto di Zola Predosa e di Castello di Serravalle, terreni diversi, altezze diverse per dare un’idea vino integrativo, costitutivo, complementare.
I calici si riempiono ancora con diversi vini bianchi, poi arrivano i rossi e la serata di diluisce, si allunga, diventa notte. Mi sorprende la grande cura che Alessandro dedica alla produzione del vino ma la mia attenzione viene completamente catturata da un Barbera Riserva 2017 che sviluppa un sacrosanto 14% e per costruirlo si inizia un grosso lavoro in vigna.
Premetto che un vitigno alloctono di provenienza piemontese, come la Barbera, ha trovato su queste colline una seconda terra promessa, sviluppando un proprio fenotipo con una sua autenticità. Del resto anche l’illustre enologo Federico Curtaz, afferma che le situazioni geoclimatiche dei Colli Bolognesi gli ricordano le sue Langhe, citando proprio questa spettacolare uva. Le uve raccolte da Fedrizzi in un terreno scosceso sotto il Castello di Serravalle sono scelte e raccolte leggermente in ritardo verso il centro del vigneto, la parte mediana, per avere una selezione di grappoli più omogenea possibile, infatti i filari nella parte bassa, un po’ meno soleggiati, hanno subito una pesante gelata primaverile mentre la parte più elevata è esposta a più insolazione e correnti più aspre.
Dopo la diraspatura, l’uva, subisce flottazioni a freddo per separare la parte solida da quella liquida, viene travasata a temperatura controllata e qui avviene l’inoculazione di lieviti selezionati poi riposa 12 mesi in acciaio per mantenere la freschezza e i profumi.
Ci sono progetti e si stanno facendo prove per dei passaggi in legno ma ne riparleremo a risultati ottenuti. Dopo un anno in acciaio la Barbera finisce per 24 mesi in bottiglia dove finisce di evolvere e diventare matura per i calici di ogni tavola e di veri appassionati perché non è un vino per tutti.
Questa riserva 2017 quando ruota nel calice già ammalia e conquista lo sguardo, rosso rubino con riflessi violacei accentuati, il naso intenso e i frutti rossi maturi, marmellatosi con sentori di ciliegie sotto spirito si esalta, diventa abbastanza persistente e invita al sorso. Al palato, intenso, colpisce la freschezza, si innata, ma mantenuta e controllata da un calore non indifferente, il tannino che è stato domato, vinto, non risulta aspro, ruvido ma quasi timido mantenendo comunque il suo impegno, i sentori fruttati anticipati al naso si tingono con i petali di fiori secchi e sorprendenti spezie. Snello ma maturo, affilato quanto basta ha un buon equilibrio e non lo si può definire rustico ma fine ed elegante, sicuramente lungo.
Lo vedo abbinato a formaggi stagionati, un Parmigiano Reggiano 36 mesi potrebbe anche ben sposarlo ma penso più a un risotto al gorgonzola, o al tartufo, un arrosto, un brasato, un caminetto con due calici e la persona amata.
Il Castello di Serravalle illuminato dalla luna, i grilli mai silenziosi, l’aria fresca mi fanno dimenticare che prima o poi devo anche scendere e tornarmene nell’arida pianura.
Ma mi desto e anche se mi dilungherei con Alessandro fino all’alba lascio il giovane al riposo notturno e torno, arricchito, fiducioso e consapevole che un altro ragazzo sta intraprendendo la strada giusta e correggerà continuamente il suo tiro, già ottimamente allineato, per raggiungere elevatissime quote di soddisfazioni e riconoscimenti.
Ma voi avete un chiodo fisso?
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