Uve minori, dimenticate. Meravigliose

Grappoli di Uva Forcella

Grappoli di Uva Ciocca

La storia ha le sue verità, e così la leggenda. La verità della leggenda ha una natura diversa da quella storica. La verità della leggenda è l’invenzione che diviene realtà. Storia e leggenda sono accomunate da una stessa finalità: tratteggiare l’uomo eterno attraverso gli uomini caduchi.

(Victor Hugo)

 

 

Ogni appassionato o professionista del vino ben sa che il vino di riferimento dei Colli Bolognesi è il Pignoletto, ottenuto con uve di Grechetto Gentile, qui chiamato anche Alionzina.

Benché sia presente su queste terre sia collinari che pianeggianti da molti anni e non da secoli probabilmente, confuso con il Riesling Italico, il Pignoletto, è stato ed è protagonista di numerose leggende legate a Plinio il Vecchio, al mondo romano quindi al mondo classico, un mondo dal quale ereditiamo miti, eroi e filosofi. Nell’immaginario comune quindi quel mondo fatto di marmoree colonne, candidi templi e giardini fastosi racchiude l’embrione della nostra cultura, della cultura occidentale, della quale noi siamo figli, forse nipoti.

Vincenzo Tanara, agronomo e gastronomo del XVIII secolo nella sua magistrale opera “Economia del Cittadino in Villa” del 1644 accenna ad un uva Pignola presente sulle colline bolognesi, poco adatta a produrre del vino.
Il riferimento al Pinus Laetus di Plinio il Vecchio pare proprio inattendibile.

Sono stati di fatto i navigatori Greci e i legionari Romani a diffondere la vite e la cultura del vino in ogni angolo d’Europa infatti, come già discusso negli articoli precedenti, ci attribuiamo il merito di aver importato attraverso il vicino oriente il sapere del vino, di averlo perfezionato e di avere, nei secoli, ottimizzato un prodotto a tal punto da ricercare oggi, il gusto e il sapore originale.

Sposando quindi l’idea di un’uva che ci viene lasciata in eredità dal mondo classico, tentiamo di elevarla a ranghi superiori e sicuramente l’intenzione è quella di nobilitarla.

Possiamo presumere che il Grechetto Gentile provenga dalla Grecia e sia strettamente imparentato con il Grechetto di Todi e la Rebola o Ribolla Riminese.

Probabilmente questo vino bianco, negli ultimi 40 anni, ha dato un’identità a questi territori e oggi, grazie ad una intensa narrazione lo riconosciamo tutti come il bianco di riferimento dei Colli Bolognesi. Ma non è sempre stato così.

In questi territori, un po’ dimenticati dalle sfolgoranti luci dei riflettori vitivinicoli nazionali ed esteri, trovare un ordine e soprattutto un riferimento è stata forse una necessità, un bisogno nato dalla voglia di iniziare a distinguersi e distaccarsi dalla dilagante invasione delle qualità internazionali che qui come altrove hanno trovato vigneron e consorzi complici.

I Sauvignon e gli Chardonnay hanno sì trovato qui una dimora adatta a grandi successi ma dare una connotazione al territorio con vitigni autoctoni sarebbe stato, secondo me, preferibile.

Tuttavia pochi lustri or sono, il Pignoletto, prima di metterli in ombra e a ridosso dell’oblio, condivideva i filari con altri vitigni, sia in impianti collinari che di pianura ma ora, sperando di non attirare le ire di molti appassionati e soprattutto di produttori di vino, vorrei ricordare qui brevemente alcune cultivar che hanno segnato la storia del nostro vino e che potrebbero convivere con il blasonato Pignoletto per arricchire la proposta, in chiave autoctona, dei nostri vini. Rimanendo quindi sempre sulla sponda dei bianchi dobbiamo ricordare l’Alionza che dona ai vini ai quali viene assemblato una grande eleganza; i duttili,  resistenti e generosi Trebbiano, qui da noi presenti soprattutto nelle specie Modenese e di Romagna regalano al vini freschezza e ampliano il bouquet aromatico; il fresco, sapido e delicato Montù, l’Albana, quando prima di finire solo in Romagna, dava ai nostri vini un discreto corpo e morbidi tannini. Non di rado, nello stesso filare nel quale erano presenti le sopra descritte uve, potevamo trovare piante di Maligia, più presente verso l’imolese e poteva essere utilizzata come taglio per recare al mosto più alcol e corpo.

In primis anche le uve Forcella, Ciocca, Angela e Bottona, completavano il parco delle varietà a disposizione dei vignaioli di un tempo. Ma i confini politici non erano invalicabili per le uve e le colture, i disciplinari non erano ancora redatti quindi non di rado sconfinavano sulle terre felsinee, tra i nostri campi, anche cultivar ora non più presenti come le uva Pellegrina o Pomoria dalla bassa modenese.

Sempre il Tanara elencava uve oramai ora estinte come il Moscatello, Leutino, Bagarella, Barbosino, Paradisa, Checca, Vernazza e Lupina. L’ultima definita “... la più trista di tutte”.

Con le loro caratteristiche e le loro peculiarità hanno colmato tini e bottiglie per secoli, grazie alla ricerca di appassionati vigneron e nostalgici enologi si sta provando a recuperare il possibile nel tentativo di proporre un vino testimone di altri tempi e oggi come non mai, un vino diverso, a completamento di un dialogo interrotto un po’ di tempo fa.

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