A come Alionza

Tra vitigni dimenticati si celano vere eccellenze tutte da riscoprire, allora scopriamo l'Alionza e un suo vino, sollievo dei sensi e conforto dell'anima.

 

In certe giornate estive il finestrino dell'auto devi per forza tenerlo chiuso perché sulle colline di Bologna le ombre che arrivano improvvise portano aria piuttosto fresca e per la mia nota cervicale non saranno poi un sollievo.

Repentini scorci mostrano la vasta Pianura Padana coperta da una noiosa onnipresente foschia e se si guarda bene all'orizzonte appaiono le cime delle Prealpi Veronesi, i Colli Euganei più a destra posizionano, nella mente, la città di Sant'Antonio.

Allora ti rendi conto che l'estesa, infinita, piatta, se vuoi meravigliosa, pianura ha un alfa e un omega. Dai dolci pendii bolognesi la puoi vedere tutta e con un po' meno smog, con un po' più di visibilità potresti vedere anche Mantova e Ravenna. Almeno così ti raccontano gli anziani signori che di cieli tersi ne hanno visti migliaia e di certo avranno avuto modo di discutere su cosa o meno si potesse osservare dai verdi poggi della Valsamoggia.

Dopo un po' di curve e di saliscendi si fa sera ed è ora di tornare verso la mia rovente pianura ma porto con me il ricordo di una giornata iniziata con qualche parola spesa insieme ad alcuni produttori di vino, alcuni giovani, altri un po' meno.

Lascio la storica Abbazia di Monteveglio, testimone di tanta storia, quella vera, alle mie spalle, costeggio il torrente Samoggia, per qualche tempo antico confine naturale tra Petroniani e Geminiani e non più macchiato dal rosso del sangue versato nelle medievali battaglie tra le due città ma colorato, oggi, dal modenese Lambrusco Grasparossa e dal bolognese Barbera. Raggiungo la periferia di Bazzano, centro amministrativo della Valsamoggia, vorrei concludere qui il mio viaggio tra cantine, filari e bottiglie tenute al fresco, risate, promesse e progetti.

Ogni amico vigneron che visito nelle scorrerie sui Colli, mi accoglie anche sistemandomi il più possibile all'ombra di grandi alberi nei giardini delle loro aziende o in fresche cantine scavate nella collina con le pareti di arenaria. Disquisendo di vari argomenti ma soprattutto dei loro vini, dell'annata che verrà, di come li hanno pensati, di come si stava meglio una volta e del grande Bologna che tramare il mondo fa, non mancano gli assaggi, a volte tanti. Difficile non scorgere un sincero sorriso scolpito nel volto di ciascun produttore di vino quando ti appresti ad entrare nel suo mondo, quando varchi il confine della sua comfort zone, ansioso di ascoltare il tuo giudizio sui suoi prodotti ed altresì ansioso di parlarti dei suoi progetti, a volte voli pindarici tra un calice ed un altro. Scopri poi che molti vignaioli cavalcano comuni idee e abbracciano gli stessi pensieri pur rimanendo entità isolate. E questo è male.

Su queste colline da un paio di millenni si produce un vino che da qualche lustro è sospinto da imponenti venti commerciali, vino bianco simbolo della città felsinea ha comunque raggiunto notevoli standard di qualità con diversi esempi di eccezionalità.

Il Pignoletto da uve Grechetto Gentile lo troviamo in diverse DOC, da Modena a Ravenna e sulle colline riminesi prende il nome di Rebola, interessante qui la tradizionale versione passito che non si produce nel bolognese.

Tornando proprio sui quei Colli Bolognesi cantati dai Lunapop di Cesare Cremonini, il Colli Bolognesi Classico Pignoletto mantiene la seconda DOCG regionale dopo la verace Albana di sola impronta romagnola.

Ma dobbiamo ricordare che il suddetto vento commerciale che spinge con abbondante forza il Pignoletto, ha purtroppo spazzato via antiche varietà già messe alla prova dal disastro della fillossera, certamente salvate da attenti e ignari produttori ma non sufficientemente poste al riparo da domande di mercati volte al gusto deciso di produzioni monovarietali; forse dalla ricerca di certezze produttive nonché costruzione di una nota identitaria. Non penso che queste idee siano sbagliate ma, tra le parole dette con gli amici viticoltori un po' più attempati emergono nostalgiche immagini, ricordi di quegli assemblaggi che da secoli rendevano i vini equilibrati e che erano realizzati da una molteplicità di uve che donavano ognuna la propria caratteristica. Nel racconto degli anziani mi viene confermato che a volte si pigiavano anche 7 o 10 varietà di uve diverse, senza purtroppo, avere una cognizione precisa dei tempi di maturazione, quindi di raccolta. Venivano comunque realizzati vini di grande equilibrio, ovviamente però senza destare quella emozioni alla bevuta che ricerchiamo oggi, certamente poco stabili grazie alle cantine approssimate degli anni passati, erano vini con necessità più alimentari che altro.

Tra le varietà che completavano il blend, voluto o meno, in queste felsinee colline alcune sono state dimenticate, altre solo ricordate da pochissimi romantici produttori rimasti a difenderle dall'oblio.

Una di queste antiche varietà è l'Alionza, già citata sin dai primissimi anni del XIV secolo dal noto Pietro de' Crescenzi, si crede arrivi dalla Francia e abbia poi trovato in queste terre una sua ideale ambientazione. Chiamata erroneamente anche Schiava, poiché si pensava provenisse da territori slavi, deve probabilmente questo suo appellativo semplicemente perché era abitudine maritare le sue piante con alberi nelle tradizionali alberate, per reggerne i tralci.

Prima di entrare a Bazzano, in località Formica, mi fermo da un degno rappresentante del mondo enologico dei Colli Bolognesi. Qui abita Giorgio Erioli grande personaggio che, tra i più maturi vignaioli dei Colli, rimane un faro, un approdo sicuro per tanti giovani promesse del mondo enoico felsineo. Pittore, poeta, fervente vignaiolo, convive in lui la profonda convinzione che le antiche varietà non debbano essere mai dimenticate ma assolutamente preservate, difese, salvaguardate per ricreare, probabilmente, un vivaio a disposizione delle future generazioni, un diversivo a palati sopraffini. un'alternativa ai soffocanti mercati piatti e monotoni, quelli senza anima, senza cuore.

Giorgio realizza, con questa varietà alcune bottiglie di notevole pregio, oltre al vino imbottiglia anche un po' della sua grande conoscenza del territorio e della storia del vino bolognese, tappa con quella bottiglie un po' di se stesso.

Notevole è il metodo classico Salebra, un uvaggio con Alionza e un 20% di altre varietà a completamento che possono variare di anno in anno a seconda delle rese, della qualità e dell'estro del vigneron poète.

Il Salebra ha un colore giallo oro con stupendi riflessi brillanti. La bolla è fine e minuscola, la trama aromatica è complessa, frutta gialla, mango, agrumi, miele ed erbe aromatiche. Il sorso è piacevole, prima di accarezzare il cuore scherza con il palato, l'effervescenza non è sgarbata ma direi molto elegante, vellutata, giustamente fresco, non nasconde una certa sapidità, sul finire appare una mandorla amara che ben si bilancia con la morbidezza avvertita all'attacco. Il colore, gli aromi, il palato che il Salebra timidamente esibisce hanno talento, la predisposizione, la vocazione per essere un vino indimenticabile, nel suo complesso ha una evidente profondità e un discreto equilibrio. Questa Alionza spumantizzata, Giorgio, l'ha saputa ben imbrigliare perché quest'uva non è semplice da gestire.

Da assaggiare con antipasti fini e delicati a base di pescato, crostacei oppure carni bianche e azzarderei anche piatti orientali composti con crudités di pesce o verdure saltate. Che grande vino il Salebra, forse un tantino riservato, schivo, poi si mostra e nel calice diventa estroso, audace!

Con il cuore pieno, l'anima soddisfatta saluto il grande Giorgio, la sera è ormai calata e il canto dei grilli ha finalmente preso il palcoscenico sostituendo lentamente il monotono canto delle cicale. L'aria, più mite, mi accompagnerà fino a casa, in quella pianura dove il sole del giorno lascia ricordi arsi, profumati di fieno.

Lascio i Colli Bolognesi con un pizzico di nostalgia ma tornerò presto per conoscere altri interpreti di questi vini, altri personaggi, altre storie.

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