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Giorgio Erioli, poeta, pittore ma soprattutto vignaiolo

Aggiornamento: 13 giu 2022

E' importante conoscere il passato per comprendere il presente? Da un certo punto di vista possiamo affermare che è perlomeno utile. Di certo dal passato ci giungono notizie che riescono, a volte, a sorprenderci per l'attualità che svelano. La storia, da una certa età in poi, mi ha sempre appassionato, leggo, studio e mi diverto a scoprire cose, che a farci caso, abbiamo continuamente sotto i nostri occhi. A parte la storia di grandi condottieri, re e personaggi importanti mi incuriosisce molto la storia silenziosa della gente comune, come vivevano, o meglio come sopravvivevano, cosa pensavano, come si vestivano, le loro abitudini, cosa mangiavano e cosa bevevano. Albarosa Filippeschi, la mia docente di storia e letteratura alle scuole superiori, mi ha fatto scoprire la storia non come un concatenamento di nozioni messe in fila ma come un ragionato susseguirsi di eventi collegati tra loro e non il linea cronologica. Durante le sue lezioni, per fare un banalissimo paragone, mi sembrava di vedere episodi di una serie televisiva avvincente.

Nell'infinitamente vasto, complesso, multicromatico, eterogeneo e pluriforme universo del vino, oltre a tutte le discipline che si occupano della vite e della cantina, la storia è una delle parti fondamentali per poterlo comprendere meglio. Appurato che il vino ha fatto parte del cammino dell'uomo da diversi millenni come alimento di estrema importanza, è parte integrante della sua storia.

Da un meraviglioso volume di Elisa Azzimondi dal titolo "Storia della vite e del vino a Bologna nei documenti della Accademia Nazionale di Agricoltura" si arguiscono molteplici e curiosi spunti su come fosse la vitivinicoltura su questi colli e nelle campagne felsinee a metà '800. La preparatissima autrice cita lo studioso Antonio Ivan Pini, autore di diversi libri sulla storia della vite a Bologna che a sua volta prende in esame il "Liber ruralium commodorum" di Pier de’ Crescenzi, dato alle stampe nel XIV secolo.

Seppur carente di una propria originalità nei principi espressi e inconsapevolmente intrisa di lacune derivanti dalle precedenti opere latine, nell'opera dello studioso medievale viene esaminata, con una certa vivacità, la coltura della vite e dei suoi aspetti. Mi incuriosiscono, nella loro inaspettata conteporaneità, alcuni argomenti trattati tra i quali la descrizione che il de' Crescenzi fa nelle differenze tra le viti ed esprime il concetto di vitigno autoctono, in sostanza un primo accenno di studi ampelografici. Dal medioevo al XIX secolo è un balzo, passano i secoli ma i problemi della vite nel bolognese restano. Riconosciuto il vino, come risorsa alimentare importante ma non principale nella alimentazione quotidiana per l'apporto calorico che non sempre era adeguato, si percepisce, dagli scritti, che la qualità della produzione felsinea non poteva competere con le già importanti realtà vinicole del neonato Regno d'Italia. Alla base di tutto ciò, una inadeguata cura sia del vigneto che in cantina con la conseguente scarsa longevità dei vini e una qualità degli stessi non sempre apprezzabile. Si pensò addirittura, in un'adunanza all'Accademia del 1871, all'utilizzo di forti scariche elettriche nel vino per migliorarne le caratteristiche.

Archivio Museo Civiltà Contadina, S. Marino Bentivoglio

I vignaioli bolognesi non erano poi inclini ad applicare le nuove tecnologie che in Europa già utilizzavano, ed è un peccato perché queste recenti conoscenze avrebbero potuto dare nuovo impeto commerciale ai discussi vini di Balanzone, figli, fin'ora, di pratiche antiche, casualità e approssimazione. Si legge anche che per l'agricoltore di allora, ogni proposta di cambiamento e innovazione si traduceva nel timore di un aumento di lavoro, più fatica e maggiori spese e non veniva quindi accolta con favore ma sempre con diffidenza, facendo ristagnare qualsiasi idea di ammodernamento. Sperimentare, provare e testare novità significava inoltre attendere quattro anni per poterne valutare i risultati. Nei primi anni del XX secolo, Serpieri volle mettere in pratica anni di considerazioni, teorie e riflessioni indicando a San Giorgio di Piano, nella pianura, dove abito, un terreno appartenente ad uno zio, per sperimentare forme di allevamento, potature e controllo del carico delle gemme, capire quale fosse la più adatta e quale poteva dare risultati soddisfacenti, migliori sicuramente di ciò che era stata la situazione fino ad allora. Così fu, il volano era in movimento, l'innovazione era partita, i produttori iniziarono a comprendere l'importanza di questa svolta ma il mondo della mezzadria era ancora tutto da convincere.


“A proposito... notevole è la collezione del Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio. Sono conservati in ottime condizioni diversi strumenti della vita quotidiana nelle campagne bolognesi. Il museo è ospitato nella Settecentesca Villa Smeraldi, circondata da un lussureggiante parco.
Museo della Civiltà Contadina

Purtroppo anche con diversi sforzi volti ad un significativo miglioramento, a Bologna non ci fu mai un reale interesse per il vino e la sua cultura. Eppure sui terreni e i suoli favorevoli ad una sana e propizia produzione di vini furono preferite altre colture.

Mancò, in sostanza, la consapevolezza delle possibilità che questo territorio poteva offrire.

Questo fu un momento chiave per il vino felsineo perché se già allora fossero state recepite in modo diverso queste pulsioni verso l'innovazione e la qualità, il panorama commerciale poteva essere quello nazionale o addirittura internazionale.

Nel XX secolo, sconvolto dalle due Guerre Mondiali, il rinnovamento subì un rallentamento, la quantità e non la qualità, era per forza ancora la scelta da farsi ma la seconda metà del '900 si illuminò di nuovo vigore.

Le cose, finalmente, sono molto diverse oggi e grazie alla passione, pura, limpida e sanguigna di alcuni viticoltori possiamo almeno confermare una ormai decisa svolta verso una eccellente qualità, anche grazie alla cavalcata degli ultimi lustri del secolo scorso a dorso del rinascimento del vino italiano.

Enologicamente discorrendo, Bazzano, fa parte del territorio dei vini dei Colli Bolognesi e il vino qui lo facevano già gli Etruschi un po' di anni fa.

Proprio a Bazzano, ho fatto la conoscenza di un vigneron verace che di storia del vino, di ricerca di uve autoctone e antiche ne fa uno stile di vita, una missione.

Giorgio Erioli, profondo conoscitore della storia della vite e ricercatore di uve autoctone mi accoglie nella sua casa. Si respira aria di cose vere, autentiche, dotate di uno "spessore", dove il dettaglio prende il posto del banale.

L'azienda di Giorgio nasce nel 1900, proprio mentre si stavano recependo quei segnali di cambiamento del mondo vitivinicolo bolognese. Il fondo Malvezza di Sopra fu parte nel '600 dei possedimenti della potente famiglia Malvezzi di Bologna, secondi solo ai Bentivoglio. Nel 1933 viene rinominata Podere San Giuseppe dal bisnonno Vincenzo. Ereditò tutto il nonno Gaetano e poi la madre Laura.

Oggi Giorgio conduce l'azienda con un'ottica innovativa, con l'entusiasmo di un ragazzino e con una tenacia senza misura.

Nelle sue vigne, Giorgio, effettua dai 3 ai 5 trattamenti l'anno solo con poltiglia bordolese e zolfo, l'azienda è quindi volta verso una produzione di vini artigianali naturali, strizzando l'occhio alla biodinamica. In cantina, poca tecnologia, utilizzo di lieviti indigeni e imbottigliamento manuale.

I terreni, sui quali trovano dimora le vigne sono di origine alluvionale e sono posti sulla riva sinistra del torrente Samoggia, le diverse conformazioni del suolo da medio impasto ricco di ciottoli ad argillosi limosi con la presenza di sali minerali importanti come potassio e fosforo danno ai vini di Erioli particolari ed uniche caratteristiche.

La singolare struttura dei suoli trova similitudini con quelle di Bordeaux, della Piana Rotaliana, della Mosella e delle Grave del Friuli. Il recupero di antichi vitigni autoctoni come espressione più autentica del territorio completano poi la filosofia aziendale e raccolgono le giuste soddisfazioni che l'azienda da sempre ricerca.

Soprattutto Alionza e Negretto sono le uve che Giorgio ha riportato ultimamente sotto i riflettori realizzando vini molto interessanti. Prima di riempire i calici con vini antichi, si discute di raffinatezze culinarie e ci si sofferma sulla mostarda bolognese, dei suoi ingredienti e di cosa va a farcire. Raviole ad esempio. Nelle raviole ci va la mostarda, non la marmellata, è una regola! Ma i calici chiamano e la bottiglia corre.

Il vigneron di Bazzano, mi versa un Alionza metodo classico Salebra 2013. Nella composizione è previsto anche un 20% di altre uve autoctone ma variabili di anno in anno per ricercare un prodotto sempre più consono alla mission aziendale. L'Alionza è un uva oramai quasi del tutto abbandonata, viene utilizzata prevalentemente in blend con altri vitigni per donare, al vino che si ottiene, un tocco di eleganza e finezza, ha una buccia molto spessa, ricca di tannino e potremmo ottenere vini morbidi e fini se il contatto con le bucce non venga prolungato.

Il Salebra ha un colore giallo oro con stupendi riflessi brillanti. La bolla è fine e minuscola, la trama aromatica è complesso, frutta gialla, mango, agrumi, miele ed erbe aromatiche. Il sorso è piacevole, l'effervescenza non è sgarbata ma direi elegante, vellutata, giustamente fresco e non nasconde una certa sapidità, sul finire appare una mandorla amara che ben si bilancia con la morbidezza avvertita all'attacco. Non è un vino superficiale, una bolla semplice, ma nel suo complesso ha una evidente profondità e un discreto equilibrio. Questa Alionza spumantizzata, Giorgio, l'ha saputa ben imbrigliare anche perché quest'uva non è semplice da gestire, uno dei motivi per la quale è stata quasi del tutto dimenticata.

Da assaggiare con antipasti fini e delicati a base di pescato, crostacei oppure carni bianche e azzarderei anche piatti orientali composti con crudités di pesce o verdure saltate.

Si fa tardi e la strada sta diventando una lastra di ghiaccio. Rimangono molti vini da assaggiare. Uve antiche rinchiuse in bottiglie da degustare, scoprire, studiare. I progetti sono tanti e l'appuntamento con Giorgio Erioli necessita di una seconda puntata quando un'altra varietà antica e autoctona la ritroverò in un calice.


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