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I grandi piccoli Colli Bolognesi - Casa Piana
Aggiornamento: 23 set 2021
Un viaggio nel viaggio. La scoperta e la consacrazione di giovani vignaioli, speranza di un futuro, conferma del lavoro che si sta svolgendo e risultato degli sforzi del passato.
Per le cause già analizzate, il vino bolognese fino al secondo dopoguerra, era poca cosa. A parte qualche, più unico che raro, caso di vignaiolo illuminato, il vino bolognese non era, e lo sappiamo, esempio di eccellenza, era moneta, era parte necessaria di un'alimentazione povera di calorie, era coltivazione marginale, all'ombra di colture cerealicole e canapicole, era soprattutto, frutto di sottili ma pesantissimi equilibri tra potere e mezzadria, merce di scambio. Era parte necessaria della dura vita nei campi. Mentre già nella seconda metà dell'Ottocento iniziavano a distinguersi realtà vitivinicole italiane come il Piemonte, si affermava il mito dei vini bordolesi, a Bologna non si credette mai nelle proprie possibilità, per diffidenza, per errore, per necessità, per le parole inascoltate degli esperti, per il perdurare di tradizioni basate sul passaparola, per evitare lo spreco visto nel diradamento, per la sordità dei mezzadri prima e dei piccoli proprietari poi. Si sarebbe potuto cavalcare l'onda del cambiamento ed entrare di prepotenza nel nuovo mercato del vino. I ritardi per arginare malattie, le guerre, la miseria hanno fatto il resto. Come scrive l'attenta Elisa Azzimondi nel suo Storia della vite e del vino nei documenti della Accademia Nazionale di Agricoltura "... Le discussioni accademiche, i rimedi originali, le teorie scientifiche, non interessavano, se non marginalmente, realtà che basavano le proprie scelte su una saggezza empirica forte e solida, che poteva lasciare il posto a forme innovative solo quando, come nel caso delle grandi emergenze epidemiche, tutto il conosciuto era già stato sperimentato e si era dimostrato insufficiente."

Mentre tutto il mondo viveva rinnovamenti e cambiamenti in ogni settore, l'universo agricolo rimaneva a guardare, regolato dai tempi delle stagioni tra lo stridio degli isolati discorsi di adeguamento dei proprietari terrieri e l'antica saggezza tramandata a voce nelle case coloniche. Sulle colline, invece, siccome la coltivazione di canapa e grano non era possibile svilupparla appieno per la conformazione dei terreni, i richiami al rinnovamento della vite furono più ascoltati e furono probabilmente messi in pratica con dei risultati che, alla lunga, portarono i frutti attesi. Anche se il decennio post-bellico vide un incremento del consumo di vino pro capite, le virtù non decollarono. C'era bisogno di quantità e in fretta! Alcuni produttori collinari, comunque, abbracciando anche solo timidamente il cambiamento di inizio XX secolo, volsero nei confronti della qualità un'attenzione particolare, lentamente, da coltivazione promiscua si stava passando a quella specializzata. Per arrivare però a bottiglie etichettate deve passare ancora molto tempo. Sul territorio nazionale c'erano sì zone vocate come ad esempio le Langhe, la Valpolicella, la Romagna, il Chianti, il Senese, l'Etna e molte altre, dove la qualità era perseguita anche grazie alla presenza di grandi aziende presenti sul territorio, ma fino al 1966, anno di istituzione della prima DOC con la Vernaccia di San Gimignano, la garanzia della qualità del vino era esclusivamente affermata, decantata e raccontata dal produttore, non vi erano linee guida, un disciplinare. Il vino prima di quella data era tutto "da tavola" e, soprattutto al Nord, veniva venduto dai produttori, sfuso, in damigiane. Così si faceva anche sui Colli Bolognesi.

La città con i suoi cinema, i locali, le comodità e le luci del progresso, attirava le nuove generazioni, quelle che alla fine della guerra poterono vivere pienamente la ricostruzione con nuovi lavori, impieghi e studi. Ci si allontanò dalle campagne e dalle colline dove il duro lavoro tra campi e filari non rispecchiava più le aspettative e le pretese di generazioni che guardavano al futuro con occhi diversi. Il lavoro non mancava, c'era da ricostruire un Paese intero. Ma non tutti lasciarono o abbandonarono, chi proseguì si adeguò, apprese nuove tecniche, ammodernò la cantina e alcuni si fermarono lì, senza ulteriori passi in avanti. Altri si prefissero di percorrere questa strada fino a migliorare ancora, iniziando a produrre vini eccellenti anche da vitigni internazionali e uscirono dai confini della città e anche oltre quelli nazionali. Si diede spinta a un autoctono di antica data e purtroppo si trascurarono e si dimenticarono i vecchi vitigni di più difficile gestione e produttività. Erano anni in cui il panorama vitivinicolo italiano stava mutando per sempre. Certo che i Colli Bolognesi rimasero poca cosa rispetto ai giganti vicini, Romagna a levante, Lambrusco a ponente e tutt'ora trovare un Colli Bolognesi Pignoletto Classico DOCG o un Bologna Rosso DOC sulle carte dei vini dei ristoranti bolognesi non è facile, è più frequente leggere Sangiovese o Lambrusco e una serie, a volte interminabile, di vini da tutta la Penisola. Non che la cosa sia sbagliata ma, secondo me, dare un po' più di importanza al territorio, su questo territorio, non sarebbe sbagliato. Chi decise di rimanere sulle colline dovette fare i conti con una vita non sempre facile e agiata, fare il contadino sui pendii non è più semplice dello stesso collega della pianura. La vita comoda della città con tutto a portata di mezzo pubblico, una pedalata o qualche chilometro in auto però non fa per tutti. Ci sono giovani che hanno sentito il richiamo di quei territori che furono dei loro nonni o dei bisnonni. Ci sono giovani che hanno scelto i dolci declivi non solo come residenza e abitazione ma come stile di vita, come proprio mondo di appartenenza. Il caso dei giovani promettenti vignaioli che si stanno facendo strada sui Colli Bolognesi potrebbe sposare perfettamente questo concetto, la ricerca di un ritorno alle origini riscoprendo ciò che era stato ma con la pretesa, l'ambizione, l'esigenza e soprattutto la voglia di migliorarlo. Nel 1956 all'Abbazia di Monteveglio, si sposa Pietro "Piràt" Lelli con la sua Renata. I genitori di lei, al termine del secondo conflitto mondiale acquistarono la casa del proprietario per la quale lavorarono come contadini tra campi di mais, grano ed erba medica. Renata prima di stabilirsi a Bologna con Piràt passò qualche anno nella proprietà dove aiutava nei lavori dei campi la sua famiglia e dove c'era una stalla con mucche da latte e tutto quello che si poteva trovare in un casolare tra le colline in quegli anni. Il latte che si produceva, la giovane Renata, a piedi, lo portava a qualche chilometro di distanza ogni mattina, pioggia, neve o vento che fosse. Pietro scendeva tutti i giorni in bicicletta fino alla città, dove lavorava e la sera risaliva le colline. Una cinquantina di chilometri al giorno, pioggia, neve o vento che fosse.

Passano i decenni, la vita cambia, il Paese cambia, le cose cambiano. Nel 1981 Pietro giunge alla pensione e decide di tornare sulle sue colline dove ristruttura, tra mille difficoltà, la casa dei suoceri. Con lungimiranza, Pietro mette a dimora dei vigneti, Chardonnay, Albana, Alionza, Pignoletto e Barbera, prevede poi, nella ristrutturazione, di costruire una cantina per produrre vino. Il piccolo Simone, nipote di Pietro e Renata, vive in città ma trascorre i week-end e i mesi estivi sulle colline con i nonni. Certo che in collina ci sono alcuni amici con i quali divertirsi ma Simone... Simone preferisce svegliarsi la mattina prestissimo e aiutare il nonno a dare i trattamenti alla vite, sfalciare, salire sui trattori e potare, respirare all'aria aperta, vivere la campagna, raccoglierne i frutti, le soddisfazioni figlie di tanta fatica. Si vende vino sfuso quasi per divertimento e passione. Passano gli anni e Simone intravede altre possibilità, la clientela acquista sempre meno vino in damigiana, le nuove case non hanno cantine adatte per imbottigliare vino e conservarlo. Il giovane finisce gli studi e decide di proseguire l'attività del nonno Pietro, che tra l'altro in tutti questi anni, ha sempre aiutato pioggia, neve o vento che fosse. Nel 2018 risistema il vigneto, sostituisce le piante malconce, cambia sistemi di allevamento, restaura la cantina, investe in passione pura per il vino, gli studi fatti gli permettono di avere una discreta conoscenza di quello che vuole e deve fare. Simone Abbondi produce le sue prime bottiglie nel 2019 con il nome delle sua azienda, Podere Casa Piana.

Mi accoglie sotto un pino di 60 anni, sistemiamo 2 sedie e un tavolino, è un'estate molto calda e sfuggire dalla canicola della rovente pianura aiuta molto, una costante brezza, il silenzio irreale ci fanno compagnia mentre il calice che mi è stato portato si riempie di un liquido giallo paglierino con bellissimi riflessi verdognoli, non è limpido, ci sono i lieviti in sospensione. Simone mi ha versato un rifermentato in bottiglia, un uvaggio che raccoglie tutta la storia della sua azienda, Pignoletto al 70%, Trebbiano al 20% e una conclusione di Alionza da vigne di 50 anni fanno di questa bevuta una scoperta interessante. Fermentazione in vetroresina e 8 mesi in bottiglia sui lieviti. Poi arriva anche un tagliere con pane e salame da affettare, ma questa è un'altra storia. Il vino che sto per assaggiare è la stessa versione del Piràt, che è commercializzato, ma non è sboccato e i sentori di frutta bianca matura e dimenticata sul tavolo richiamano ricordi di pomeriggi estivi tra le mura domestiche, i fiori gialli, il profumo del fieno e rosmarino anticipano un sorso intenso e di una freschezza inaspettata, sapidità solida e un finale amarognolo non riescono a inasprire le morbidezze decise dai lieviti, affascinante, intrigante, da scoprire. Ma è una versione "fuori serie", e sarà disponibile con l'annata 2021, allora il lesto Simone mi versa in un altro calice l'"ufficiale" Piràt, che essendo sboccato, risulta più fine ed elegante, anche se all'occhio lo potremmo confondere con il "fuori serie", il naso e il palato lo definiscono e gli danno una sua personalità, sempre tagliente ma non troppo, direi armonico ed esaustivo.

Se vogliamo invece farci accarezzare i sensi con l'unico rosso aziendale, sarebbe opportuno assaggiare la giovane Barbera I Calanchi 2020 in versione tranquilla. Il giovane Abbondi non esita a riempirmi un abbondante calice e si siede di fronte a me con sguardo compiaciuto, attende solo che gli esponga le mie sensazioni, perché sì è giovane ma ben consapevole di ciò che mi ha appena versato. Il colore rosso rubino con estremi violacei non inganna la giovane età della Barbera che si esprime al naso ricca e complessa, fatta di piccoli frutti rossi e neri, una leggera nota balsamica ed erbacea completa il bouquet. Una bella bevuta che parte timida, fresca e finisce potente e calda quando i piccoli frutti diventano maturi, il tannino, mai nervoso non graffia e mantiene in perfetto equilibrio questo vino ben costruito che fa 2 follature al dì per 9 giorni poi passa 6 mesi in acciaio a riprendere forza prima di passare altri 2 mesi in bottiglia e restituire al bevitore ogni particella di felicità. Non pago, Simone, mi fa cenno di seguirlo e mi rammenta di una chiaccherata di qualche giorno prima a proposito di un vino rosa che ha già pronto da imbottigliare. Lo raggiungo tosto in cantina e mi riempie il calice direttamente dalla vasca di acciaio. Manco a dirlo, il bel colore rosa è magnetico e lo sguardo non si distoglie mentre attendo quella manciata di secondi perché il vino si apra ed esprima quello che deve. Si tratta della stessa Barbera che ho appena assaggiato ma con una macerazione sulle bucce di qualche minuto, il solo tempo della spremitura poi acciaio per 8 mesi. Noto una discreta consistenza, mi aspetto qualsiasi cosa, il naso è fine, delicato ma esprime fragoline di bosco, pompelmo rosa e soprattutto ha un intensità non comune per il mondo dei rosa. L'attacco è alquanto fresco, tagliente e diretto poi i frutti rossi appena croccanti esprimono il loro lato più morbido per portarci ad una chiusura ruffiana e morbida, affilato equilibrio che non si sposta, all'inizio, dal centro della bocca per poi conquistarla in ogni suo angolo con una persistenza quasi lunga. Che bel rosato Simone, che bel vino completo, seducente con fascino da vendere e penso che riesca ad esaltare diversi piatti della nostra cucina. Lo vedo già con fritti di ogni genere e pesci anche consistenti, con carni poco elaborate e credo che una tartare di Romagnola con salsa di senape dolce lo possa sostenere perfettamente. La bottiglia al momento non ha ancora un nome ma penso che il giovane Abbondi la intenda nominar Ramato. Ai posteri il giudizio. Ho visitato e conosciuto una piccola azienda che ha di fronte a sé ancora tanta strada e tanto futuro, se la anticipazioni sono queste, penso che il tempo che deve ancora venire possa regalare a Simone tante soddisfazioni. Bravo. Lascio Casa Piana per discendere la colline e fare ritorno alla rovente pianura con una bottiglia di Pignoletto Frizzante da stappare ma non prima di averla portata a temperatura. A presto Simone, serbami altre sorprese.